Le mani sulla roccia

comitato scientifico sezionale

 

Nella vita capita sempre un momento in cui ti trovi impegnato a far qualcosa che non ti aspettavi di fare”: un incipit nel quale ciascuno di noi facilmente si immedesima e, ripescando un ricordo, sorride.

Il racconto della prima volta con “le mani sulla roccia” del Capitano Cresta inizia così con un viaggio interiore che Renato indirettamente ci invita a fare.

Questo riconoscere l’io nel tu è uno dei tanti segreti della Montagna. Infatti, percorrendo salite e discese, faticando e provando meraviglia semplicemente “viviamo forte”: viviamo forte nel corpo (grazie alla fatica che ci rimette in contatto con ogni nostra fibra!) e viviamo forte nelle emozioni che la Natura ci sa continuamente sorprendentemente donare. E ritrovando nella semplice fatica la fratellanza tra esseri umani, la Montagna (come il Mare) ci insegna la solidarietà: “le montagne dividono le acque e uniscono gli uomini” si legge sul Monte Saccarello.

E poi la Montagna è Amicizia: “… ma Giovanni non è tipo da prendersela e ride anche lui, ride di gusto perché accetta lo scherzo e le risate non sono più di canzonatura, ma di amicizia”.

Buona Montagna, buona Amicizia!
Francesca Fabbri

 

L’inaspettato

 

Nella vita capita sempre un momento in cui ti trovi impegnato a far qualcosa che non ti aspettavi di fare, a cui non hai mai pensato. Sei inesperto, parti da zero, eppure ti accorgi che, nel complesso, la faccenda ti riesce. Ti rendi conto che ci sono imperfezioni e difetti in quello che hai fatto, ma pensi che, riprovandoci, puoi riuscire a far meglio. Anzi, vuoi riprovarci perché quel “qualcosa” ti interessa, forse già ti piace.

Beh, a me è andata proprio così quando, per la prima volta, ho messo le mani sulla roccia.

 

Le mani sulla roccia

 

Mi piaceva moltissimo camminare sui monti della Liguria, gite lunghe intere giornate di cammino, sempre molto panoramiche perché, in prevalenza, ci si muoveva lungo i crinali. Ambiente semiselvaggio, rare le costruzioni, ancor più rari i viandanti.

Mi sono accorto che si trattava di un ambiente che non era poi così selvaggio, perché i sentieri erano segno che quel luogo era frequentato da lungo tempo, ma mi rendevo conto che erano luoghi solitari, a volte impervi, frequentati solo per necessità o da appassionati come noi.

 

E questo ambiente mi attirava … roba da confessare a qualche psicologo: Quando mi muovo per raggiungere l’orizzonte non so che cosa cerco, ma so che oltre quell’orizzonte ce n’è un altro più lontano e poi ancora un altro e mi chiedo se sono io che cerco l’orizzonte o se è lui che sta cercando me, che mi affascina e mi attira, come le sirene di Ulisse.

Dottore, è pericoloso?

 

Ed è questa Attrazione Pericolosa che mi fa ritrovare entusiasta partecipante all’escursione speciale che un paio di volte l’anno, una in primavera ed una in autunno, il G. A. Vajolet organizza.

Era la “grande escursione” in pullman sino alle Alpi Marittime oppure sino alle Apuane, che erano le più vicine.

Furono queste gite che dilatarono la mia conoscenza delle montagne, quelle vere, quelle dall’aspetto impervio.

 

Alle Alpi Marittime mancano le quote delle Alpi Graie e Pennine (la vetta più alta, l’Argentera, raggiunge i 3.297 m), ma sono caratterizzate da un’accentuata verticalità delle pareti, che emergono sovente direttamente dal bosco, o sono precedute da brevi macereti o radi pascoli sassosi.

Era un lungo viaggio in pullman lungo le Strade Statali (tra Voltri e Savona c’erano cinque passaggi a livello), seguito da una faticosa sgroppata ad un rifugio, al Morelli, al Garelli, al Talarico, per vedere montagne: l’Argentera, il Marguareis, l’Ubac e tante altre montagne dai nomi insoliti ed affascinanti: il Malinvern, il Tenibres, e l’Ischiator, oltre i quali c’era la Francia, che non potevo visitare perché, essendo ormai prossimo al servizio militare, mi era vietato l’espatrio.

E altre montagne ancora, come il Gelas e la Maledia, rese affascinanti da minuscole chiazze di ghiacciaio che facevano sorgere il desiderio di salirle.

 

Avevo qualche perplessità circa la definizione di “Alpi” riservata alle Apuane, un gruppo montuoso che appartiene indiscutibilmente all’Appennino, ma quando le ho viste mi sono reso conto che il loro aspetto giustifica il nome. Vi sono andato non più di tre o quattro volte, giusto ad inizio della buona stagione, perché sono le prime dalle quali la neve scompare, e ho visto impegnative pareti rocciose, specie sui versanti nord.

Una di queste gite ha avuto per meta il Bivacco Aronte, a cui siamo saliti dal versante di Massa, una salita che, nel tratto iniziale, si sviluppa lungo la lizza di una cava di marmo: faticosa la salita, spaccagambe la discesa.

 

La ricordo perché Giancarlo era salito sul pullman con in spalla il sacco da cui si affacciava una corda “da roccia” ed io gli avevo chiesto se era necessaria per raggiungere il Rifugio.

Aspëta e ti vediè è stata la risposta.

 

Durante la sosta per la merenda campestre nei pressi del Bivacco, Giancarlo mi chiama e chiede se voglio andare con lui. Dove? – Lasciû e mi indica quella guglia che avanza nel cielo, a sinistra del bivacco.

Mi dice che non è difficile, quella è la Punta Carina, che è stata salita la prima volta da Bartolomeo Figari, quel genovese che è Presidente del CAI (alla data della nostra gita).

Lo seguo sino al budello che separa la guglia dalla parete e mi lega alla sua corda, poi inizia a salire e si ferma poco oltre metà parete, quindi mi dice di raggiungerlo.

Non sono mai salito su roccia, ma mi sono più volte arrampicato sui muri a lato delle crœse per penetrare in qualche giardino a rubare fichi o pere. Riesco a raggiungerlo senza trovare particolari difficoltà. La sola differenza sta nella misura da terra: Belin, quelle mûage son ciù basse!

Mi assicura ad un chiodo infisso nella roccia e prosegue per raggiungere la sommità, poco lontana.

Quand’è il mio turno mi accorgo che la faccenda si è fatta più difficile, adesso è quasi come salire il muro del convento delle suore di Maria Ausiliatrice, che è intonacato. Ma al di là di quel muro c’erano molte ragazze che quando ci vedevano sedere a cavalcioni del muro scappavano via … tranne qualcuna che si fermava a guardarci e ci sorrideva finché una giungeva una suora a rimorchiarla via mentre ci gridava di scendere e noi rispondevamo: Da che parte?

 

Però, chi l’è n’âtra fôua, cose ghe saià delà de questo schèuggio?

Raggiungo la vetta e scopro che oltre quello scoglio c’è lo stesso panorama che ho visto dal basso, ma non sono deluso. Cambia solo il punto di vista: in fondo, è come guardare la strada dal portone di casa e poi salire ed osservarla dal poggiolo di casa, al quarto piano, da dove vedo persino il portone per il quale sono passato. Solo che entrando dal portone sono salito per le scale, mentre qui mi sono arrampicato lungo la facciata.

Capisco, però, che si può salire ancora più in alto per vedere di più, per “allargare l’orizzonte”. D’accordo, è vero, ma si può salire più in alto anche seguendo vie meno difficili, è il primo pensiero, presto seguito da un altro: oggi ho messo le mani sulla roccia per scalare una parete montana, quindi ho fatto dell’alpinismo o forse si deve parlare solo di arrampicata su roccia?

Quando rientriamo a valle siamo già un poco rosolati dal sole; c’è la solita allegria, ma noto che alcuni osservano Giovanni e ridono silenziosamente, non capisco perché e li guardo interrogativamente, ma mi fanno segno di tacere.

Dopo circa un’ora di discesa si fa una breve sosta e tutti togliamo il sacco dalle spalle, anche Giovanni che lo posa a terra con un sospiro di soddisfazione e dice: Oua posso spostà a scàtoa de sardenn-e che a me spacca a schenn-a. Poi si ferma e borbotta, quasi a sé stesso. Ma l’ho zà mangiè!

Apre il sacco ed affiora un sasso, un bel pezzo di marmo di almeno tre chili. Risata generale, ma Giovanni non è tipo da prendersela e ride anche lui, ride di gusto perché accetta lo scherzo e le risate non sono più di canzonatura, ma di amicizia.

Sul pullman chiedo a Giancarlo se vuole insegnarmi ad arrampicare e Giancarlo mi porterà più volte in una palestra di arrampicata nell’interno di Sestri, un piccolo monolite di poco più di una ventina di metri, ma molto interessante (eccomi impegnato a salirlo). Poi mi chiederà di accompagnarlo in diverse salite e, per un paio d’anni, sarò il suo secondo. Poi ci perderemo di vista perché io partirò per il servizio militare e non farò più ritorno a Genova; lui si sposerà e andrà a vivere a Firenze.

Sono state proprio le salite che ho affrontato con lui che mi hanno fatto le ossa, quelle che poi mi romperò con il paracadutismo e lo sci, ma questa è un’altra storia.

 

Macugnaga, luglio 2017

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