La Punta Martin

Con questo nuovo racconto l’Amico Renato ci narra la sua prima volta “su una montagna vera”. Una montagna a due passi dal mare: anzi una montagna con ravvicinatissima “vista mare”.
Siamo a Punta Martin, “al confine (geologico) tra Appennini e Alpi”.
Nel comune pensare l’Appennino è ritenuto un ambiente insipido, scomodo per le salite d’accesso ai crinali e privo della bellezza e della maestosità delle Alpi, ma questo è il punto di vista del turista, che vuole panorami di montagne grandiose (da osservare seduto al tavolo del bar o affacciato al balcone dell’albergo – pardon, del Grand Hotel), vuole paesi caratteristici con rustiche baite in pietra e legno (riservate agli abitanti, perché le camere d’albergo devono avere i servizi, essere confortevoli e ben riscaldate)”: tristemente vera questa descrizione del “turista da città”, del turista che va in montagna …”come se andasse al cinema”… e proprio come se fosse al cinema vuole un ambiente ben riscaldato, comodo, civilizzato ….
E’ altro il viaggiare “stile CAI”: è il viaggiare curioso e rispettoso di chi sa che quei sentieri che sta percorrendo nel tempo libero erano via di comunicazione e di fatica per chi, non troppo tempo fa, lì viveva e moriva, lì faticava per sopravvivere.
Noi non cerchiamo “un indaffarato cantiere turistico, un laboratorio nel quale si produce una quantità enorme di “falsi d’autore”, di cui tutti fanno provvista, senza accorgersi della fregatura che c’è sotto”.
Noi con rispetto e consapevolezza camminiamo per conoscere. E come scrive Renato: “se vuoi conoscere veramente la vita del montanaro, la vita di chi trasforma l’erba in pane, l’albero in casa e con le pietre ne fa il tetto devi ormai visitare l’Appennino, quello selvaggio dei Monti Liguri, della Garfagnana, dei Sibillini, del Pollino, della Sila”.
Ed ecco che se cambia l’atteggiamento, un distratto guardare diventa un attento vedere che ci consente di riconoscere la Peverina di Voltri, il Cerastrium utriense …. E con orgoglio genovese rivendichiamo che “i botanici usano solo termini latini per dar nome alle specie floristiche, ma in questo caso la scienza ha chiesto in prestito un termine al dialetto genovese”.
E allora torniamoci sulla nostra bellissima Punta Martin, consapevoli della fortuna che abbiamo ad essere marinai di montagna, montagnini di mare, escursionisti col salmastro nei polmoni.
L’Appennino conserva per noi storie geologiche e geomorfologiche antiche che abbiamo il dovere per statuto di conoscere e proteggere. E conserva la cultura della vita vera, della vita scandita dal sorgere e calare del sole, dalle stagioni e dal maltempo, dalla fatica e dal sacrificio, dalla consapevolezza della preziosità di una peverina o di una dafne.
Difendiamo il nostro Appennino da chi vorrebbe farne un mercato fuori porta al quale accedere magari accompagnati da ben pagati accompagnatori, un parco giochi da percorrere e massacrare illegalmente su moto senza targa che devastano sentieri ed ecosistemi, un business dal quale saccheggiare senza rispetto con antiche e nuove miniere.
Questo piacevolissimo racconto fa venire voglia di tornarci su quel 1001 che è Punta Martin, orgogliosamente consapevoli del fatto che la peverina “cresce solo qui e tutto il resto del mondo può solo invidiarcela”.
Buona lettura e buona Tutela dell’Ambiente Montano!
Francesca Fabbri

La prima uscita

Gironzolare per i monti mi è stato utile per farmi le gambe con cui ho gareggiato in corse campestri, su strada e su pista. Sono un buon podista, ma non sono un campione, anche se ho vinto un Campionato Provinciale di Corsa Campestre ed il Trofeo Bissolati, una prestigiosa gara su strada che aveva il valore di un Campionato Ligure. Devo precisare che i due trofei erano assegnati alla squadra e non al singolo, perciò li ho vinti in coppia con un compagno di squadra.
Invertendo il ragionamento: le gare di mezzofondo mi hanno fatto le gambe, hanno allenato la resistenza alle lunghe camminate in montagna ed ora, finalmente, mi allontano dai soliti percorsi per andare a conoscere altri monti, anzi, per andare a conoscere “le montagne”.

La Punta Martin

Del tutto casualmente ho conosciuto persone giovani, allegre, simpatiche che conoscono bene i monti del genovesato e che, quasi ogni domenica, fanno lunghe camminate su questi monti rapati.
Mi hanno proposto di unirmi a loro, di entrare a far parte del Gruppo Alpinistico Vajolet, nome forse esagerato:
• Gruppo: siamo poco più di una ventina di soci, però tanti bastano ed avanzano per formare un “gruppo”.
• Alpinistico: solo uno pratica l’arrampicata.
• Vajolet: Abbiamo un’idea di cosa siano le Torri del Vajolet perché sono disegnate sulla nostra tessera, ma la maggior parte di noi non le ha mai viste e (io compreso) non sa neppure dove siano.


Di tutto questo non mi preoccupo, spero che la loro compagnia mi permetta buone occasioni per fare scorpacciate di panorami aperti su valli per nulla “ubertose”, ma questo non vieta che l’aspetto quasi selvaggio di queste valli, pressoché prive di segni di civilizzazione, eserciti su di me un forte invito a conoscerle.

 

Si parte di buon mattino, approfittando del primo tram, di un treno o di una “corriera” che ci portano in qualche angolo della riviera oppure in un paesino dell’oltre giogo e poi, dopo qualche ora di cammino in salita e lunghe traversate sul crinale, una ripida discesa ci conduce ad una stazione ferroviaria o al capolinea periferico di un tram che ci riportano a casa per l’ora di cena.
Nel comune pensare l’Appennino è ritenuto un ambiente insipido, scomodo per le salite d’accesso ai crinali e privo della bellezza e della maestosità delle Alpi, ma questo è il punto di vista del turista, che vuole panorami di montagne grandiose (da osservare seduto al tavolo del bar o affacciato al balcone dell’albergo – pardon, del Grand Hotel), vuole paesi caratteristici con rustiche baite in pietra e legno (riservate agli abitanti, perché le camere d’albergo devono avere i servizi, essere confortevoli e ben riscaldate). Quando, ben bardato ed adornato, lascia il bar della piazza per andare in escursione, vuole vedere alpigiani che pascolano mucche e pecore ma per carità, non fatele camminare sui sentieri, che imbrattano tutto! Ormai le Alpi non sono più quel mondo schietto e ricco di fascino che ha attirato i “viaggiatori” dell’Ottocento; ogni paese è diventato un indaffarato cantiere turistico, un laboratorio nel quale si produce una quantità enorme di “falsi d’autore”, di cui tutti fanno provvista, senza accorgersi della fregatura che c’è sotto. Se vuoi conoscere veramente la vita del montanaro, la vita di chi trasforma l’erba in pane, l’albero in casa e con le pietre ne fa il tetto devi ormai visitare l’Appennino, quello selvaggio dei Monti Liguri, della Garfagnana, dei Sibillini, del Pollino, della Sila.
Dal punto di vista della fatica si deve convenire che le salite sono faticose in egual misura, ma sulle Alpi l’escursione termina al piede delle grandi pareti, dove inizia l’arrampicata, mentre in Appennino si raggiungono i crinali e su questi si può proseguire fino a quando non si tuffano in mare o sbucano sulla pianura.
Ho girato ben bene queste montagne e ne sono rimasto affascinato. Insomma, ho le Alpi per moglie e le montagne degli Appennini per amanti

La mia prima vera gita in montagna raggiunge la Punta Martin, su questa elevazione ha inizio la mia carriera di montagnin: non più la collina del Monte Ratti, alta solo 564 m ma un monte alto ben 1001 m.

In programma abbiamo la salita alla Punta Martin, che non è un monte ma una montagna, perché un tratto di versante della Punta Martin, detto La Baiarda, ha aspetto impervio e quella dell’aspetto impervio è la caratteristica che, per i geografi, differenzia il monte dalla montagna.
Penso a tutto questo e mi scappa da ridere: com’era difficile andare in montagna a quei tempi: se manca l’aspetto impervio hai un bel camminare, non stai andando in montagna, stai solo andando per monti.
La nostra gita è iniziata dalla stazione dell’Acquasanta lungo un sentiero che, aggirato un costone, attraversa a mezza costa un tratto a bosco e raggiunge il Rio Baiardetta, un torrentello dalle acque freschissime. Guadato il torrente, il sentiero si arrampica su di un ripido pendio e raggiunge il crinale di un costone, quindi prosegue lungo il crinale e lo risale sino alla vetta. Adesso il tracciato avviene in parte su strada sterrata ma allora era solo sentiero, un sentiero autentico, largo quanto basta per posare i piedi su terreno battuto, con qualche brusca sterzata per aggirare un masso od un dosso e poi su, diritto verso l’alto, verso la punta.
In sé, la camminata è senza storia, ma il panorama è un continuo aprirsi su spazi sempre più vasti sino a quando raggiungi la vetta.
Eccomi quassù: anche se solo di 1 metro, ho superato i 1.000 m di quota ed ho visto il mare molto più in basso di me, a soli 5,5 km di distanza (garantisco l’esattezza della misura).

È una giornata di sole e cielo terso ed abbiamo la fortuna di vedere addirittura la Corsica, o meglio: una macchia scura con il margine superiore irregolare e chiazzato di bianco.
Ho già goduto questa visione dalle alture di Pianderlino, ma oggi è meglio definita. Verso la terraferma lo sguardo spazia sul Reixa e il Beigua, poi sui monti verso Praglia per sfumare verso il Monte Figogna con il Santuario di N. S. della Guardia. Sto facendo un ripasso della geografia che conosco, che ho studiato su qualche carta topografica ma che, per la prima volta, vedo dal vivo. Un panorama veramente spazioso, una balconata sui monti della Liguria, un invito a nuove escursioni, a nuove scoperte.

Piacevole sorpresa: non si torna alla stazione ferroviaria, ma si prosegue lungo il crinale, verso il Monte Pennello, che non si tocca perché aggiriamo tutta la conca dell’Acquasanta e, sempre su crinale, con breve discesa finale, raggiungiamo il Passo del Turchino. Sosta all’osteria, dietro il banco della quale compare una “vecchietta” che, alla domanda di uno di noi: Nonna, ghe n’avei vin bon? risponde tranquillamente: O scì, ma m’o u beivo mì. Risata generale e bevuta … si, la nonna ha proprio ragione, il vino buono se lo beve lei, a noi ha servito vino di mediocre qualità.
Una corriera ci porterà in Piazza De Ferrari da dove, ripudiando il tram, torneremo a casa a piedi, marciando fieramente con il sacco in spalla per una Via XX Settembre semideserta.

Quando, il giorno dopo, ripenso alla gita, mi rendo conto che, forse, ho camminato meno che in qualche mia scappata nella Val Bisagno, ma ho visto quanto basta per mettere in programma nuove escursioni.
Poi penso ai compagni: sono simpatici, allegri, si sta bene insieme e ci sono pure alcune ragazze, simpatiche pure quelle ma o sono già impegnate con qualche socio, o sono sorelle di qualche compagno di gita. Queste non sono impegnate però … per il momento è meglio non prendere impegni.

Avete mai visto questo fiore?

Probabilmente si ma forse, come me, non ci avete fatto caso.
È la Peverina di Voltri, il Cerastrium utriense dei botanici, dove utriense trova origine in Vutri o Utri, il toponimo dialettale di Voltri. I botanici usano solo termini latini per dar nome alle specie floristiche, ma in questo caso la scienza ha chiesto in prestito un termine al dialetto genovese.
Ero convinto che la specie botanica più prossima ai genovesi fosse l’Ocimum basilicum, ma questo entra a far parte di un’altra scienza, della scienza culinaria, infatti esiste un Corso di Laurea Triennale Online in Gastronomia, Ospitalità e Territorio che prepara lo studente sui processi produttivi, i legami tra cibi e territori, le loro valenza socioculturali, economiche e ambientali. Prima di ordinare un piatto di trenette al pesto devo prendere in considerazione che, ad ogni forchettata, dovrò pensare bene alla valenza socioculturale del basilico, eccetera, eccetera.

Torniamo alla Peverina: si tratta di un endemismo del Gruppo del Monte Beigua – Piani di Praglia – entroterra di Genova, tra Sestri Ponente e Voltri. Cresce solo qui e tutto il resto del mondo può solo invidiarcela.
Nonostante sia salito più volte alla Punta Martin, questo fiore l’ho scoperto molti anni dopo ed ho subito pensato che eravamo giovani ed ignoranti, dei caproni che calpestavano gioielli botanici senza rendersene conto. Poi mi sono reso conto che eravamo ignoranti senza colpa: dove potevamo andare ad attingere certe informazioni che sono diventate accessibili solo quando il computer ha permesso di accedere a programmi di informazione scientifica?

 

Macugnaga, settembre 2012

Condividi questo articolo