La gazza

Con il nuovo anno tornano i racconti del genovese di Macugnaga, del nostro Capitano Renato Cresta.

Questa volta la storia inizia con un dialogo tra l’autore e il suo imbronciato calendario all’alba del solstizio d’inverno. Quindi Renato va alla finestra e fotografa una meravigliosa alba dorata che solo la parete est del Monte Rosa sa donare, la parete più alta delle Alpi e l’unica di tipo himalayano con i suoi 2600 m di dislivello!

Alla finestra del piccolo grande mondo l’attenzione viene poi catturata da uno stormo di gazze che frequentano la zona: “Si muovono sul prato a passi lunghi e lenti, con un’andatura che le fa apparire impettite, che sembra dar loro un’aria di alterigia. Qualcuna svolazza, poi una più grande, forse un maschio, va a cercarsi un posatoio su un ramo d’abete. Si posa rivolto verso di me e, quando muove il capo, ne vedo bene la testa nera e snella, con quel cappuccio squadrato ed il becco appuntito e forte. Mentre il resto del piccolo stormo si agita, questo individuo se ne resta fermo sul ramo e quell’azzurro delle remiganti richiuse, che appare appena sullo sfondo bianco sporco della poca neve al suolo, mi richiama qualcosa di già visto …  il quadro di Claude Monet”.

Ed ecco che l’attenzione dell’autore dopo essere passata in pieno spirito “Comitato Scientifico” dal paesaggio allo stormo di gazze passa poi alla singola gazza e quindi al ricordo che questa simpatica bestiola riporta alla mente di Renato. Compare dunque il ricordo di un famoso quadro di uno dei fondatori dell’impressionismo francese: “la gazza” di Claude-Oscar Monet, l’”olio su tela” realizzato en plein air che rappresenta un angolo di campagna immerso nel silenzio di un innevato inverno con una gazza quale unico essere vivente e “abitante” del dipinto.

La passione per la natura e per la magia della neve unisce autore e scrittore in un baleno. Poi la realtà e il volo delle gazze richiamano l’attenzione del genovese di Macugnaga… e seguono altri pensieri e altri dialoghi.

“Smetto di scrivere, mi rendo conto di aver fatto un gran mischmasch: va bene che il titolo di questa raccolta è Memöie a brœttio, ma la confusione deve essere tra i racconti, non nel racconto”.

Il finale poi è spiritoso e imperdibile, con citazione conclusiva del noto Rhett Butler (Carneade? Chi era costui?)

Buona lettura, buona Montagna e buon nuovo anno di Pace e conoscenza.

Francesca Fabbri

La gazza

 Guardo il calendario e vedo che mi guarda storto, deve essere imbronciato: lo raddrizzo ed allora si sfoga:

  • Hai presente la luce fredda e azzurrina delle mattine di dicembre, quella luce tagliente che dovrebbe fare più nitide le ombre?  Bene, domani sarà il solstizio d’inverno, il giorno più corto dell’anno, domani avrà inizio la stagione fredda e da domani questa sarà la luce che rischiarerà il piccolo mondo in cui vivi.

Capisco perché sia innervosito, sa che tra una settimana lo butterò via e l’idea che non finirà nella spazzatura ma nel riciclabile non lo consola. Ha sgobbato un anno intero e, anche se mi ha donato molte giornate felici, tra pochi giorni sarà “cestinato”.

Per rabbonirlo cerco di dialogare:

  • D’accordo, questo sarà il domani, ma questa mattina lo spettacolo è del tutto diverso. Guarda fuori: sembra che l’autunno voglia sfruttare proprio l’ultimo giorno della sua stagione per pulire nello straccio azzurro del cielo i suoi pennelli imbrattati del rosso, del giallo e dell’arancione che, nei mesi scorsi, ha sparso senza risparmio sui versanti della valle.

Ma i colori dorati dell’autunno rallegreranno il cielo ancora per poche ore: verso il mezzogiorno il sole darà un’ultima sbirciatina nella valle che, per il resto del giorno, sarà avvolta in un sottile velo grigio-azzurrino, privo di ombre, un velo che renderà tenue ogni colore e priverà il panorama di ogni tridimensionalità.

Esco sul balcone per scattare qualche fotografia alle luci di un’alba colorata e, terminato di dedicare la mia attenzione all’inquadratura ed alla scelta dei tempi di scatto, resto ancora a gustarmi quei colori e mi vien facile pensare che, tanti anni fa, li avrei descritti in un tema usando termini come “un’alba dorata” o qualche altra convenzionalità simile, sperando che fosse accolta con effetto positivo dall’insegnante.

In Italia, la convenzionalità delle due parole “Alba Dorata” adesso fa spicco sulle insegne di innumerevoli “resort”, i piccoli alberghi situati in spazi aperti un poco discosti dai centri urbani.

Adesso, invece, sarebbe equivoco usare questa espressione che, in Grecia, identifica uno schieramento di estrema destra, ora messo fuori legge.

Alba dorata mia, come sei caduta in basso!

Sono sicuro dell’ora eppure i colori di quest’alba mi fanno l’effetto di un tramonto, mi suggestionano e mi trattengono ancora sul balcone, ma ecco che a distrarmi arriva il solito piccolo stormo di gazze, le Cyanopica, così dette per il bellissimo colore azzurro cyan delle ali. Arriva ogni mattina questo stormo, ormai è una sua abitudine, e si posa sul prato del vicino, che ha già provveduto a spargere tozzi di pan secco, ritagli ed avanzi di carne e frutta. Arrivano e ciarlano le gazze, ciarlano senza fine, chissà cosa si dicono con quel loro cicaleccio aspro, talvolta quasi molesto all’orecchio.

Questa mattina, però, sono quasi taciturne: da un paio di settimane il mio vicino se n’è tornato in città ed ora non trovano più la mensa imbandita; forse anch’io resterei senza parole se, tornando a casa, non trovassi nulla per pranzo o cena.

Si muovono sul prato a passi lunghi e lenti, con un’andatura che le fa apparire impettite, che sembra dar loro un’aria di alterigia. Qualcuna svolazza, poi una più grande, forse un maschio, va a cercarsi un posatoio su un ramo d’abete. Si posa rivolto verso di me e, quando muove il capo, ne vedo bene la testa nera e snella, con quel cappuccio squadrato ed il becco appuntito e forte.

Mentre il resto del piccolo stormo si agita, questo individuo se ne resta fermo sul ramo e quell’azzurro delle remiganti richiuse, che appare appena sullo sfondo bianco sporco della poca neve al suolo, mi richiama qualcosa di già visto …  il quadro di Claude Monet.

È fantastico questo quadro che ha per titolo “La gazza” ma questa è rappresentata solo da due macchioline, una nera ed una azzurra che si perdono in un rettangolo di oltre un metro di base, un rettangolo riempito da infinite sfumature di bianco, interrotto poco sotto la metà dalla striscia grigio-marrone di un muretto orizzontale di sassi e, alla sinistra del muretto, da cinque stanghe di legno che formano un cancello sbilenco.


È proprio sulla stanga più alta del cancello che si possono osservare quelle due macchioline, sopra quella nera, sotto quella azzurra, ma se guardi bene ti accorgi che sono ben più di due macchie di colore: quella è una gazza!

Sì, il panorama che osservo dal balcone di casa è diverso da quello del quadro: sul prato c’è meno neve e manca il sole, ma la gazza è la stessa …  è la gazza di Monet che ha abbandonato il quadro ed è volata qui, tra le sue compagne, ma queste sono troppo giovani e chiassose e forse per questo il vecchio maschio si è allontanato per posarsi su questo ramo che gli ricorda la stanga del cancello.

È bello questo spettacolo, anche se l’assenza di ombre priva di profondità l’inquadratura, ma … lo spettacolo è terminato, le gazze prendono il volo verso il bosco di abeti oltre il fiume; anche il vecchio maschio le segue ed io posso ancora ammirare per qualche istante questi lampi di azzurro che si allontanano, poi rientro, mi metto al computer e vado in cerca del quadro di Monet.

È un quadro di centotrenta centimetri di base che è ridotto, è soffocato nei soli trentacinque centimetri dello schermo, però è egualmente bello: la foschia dello sfondo, da cui sbucano solo due rossi comignoli di cotto, concentra l’osservazione sul primo piano, su quel muretto che limita lo spazio, poi lo stacco netto tra sole ed ombra, che lo fa ancor più ristretto. Per me, il capolavoro è concentrato nelle stanghe del cancello, che apre lo sguardo verso spazi lontani, e nella gazza: quelle due macchioline di colore che danno vita al quadro.

Eccomi, sembra dirmi quella gazza, in questo deserto bianco in cui tutto appare morto ci sono io. No, io non rappresento lo spirito di questa stagione, io sono il “genius loci”, lo spirito del luogo, il custode di quest’orto che l’uomo ha temporaneamente abbandonato, ma nel quale resta l’organizzazione che egli vi ha impresso. Questa primavera, quando sarà scomparsa la neve, l’uomo tornerà e ritroverà tutto come lo aveva lasciato e vorrà ringraziarmi per aver fatto buona guardia, perciò vangherà la terra perché, rivoltando le zolle, metterà a mia disposizione semi, vermi ed insetti ed anche arvicole e topolini e con questi potrò allevare i miei nuovi pulcini … 

Smetto di scrivere, mi rendo conto di aver fatto un gran mischmasch: va bene che il titolo di questa raccolta è Memöie a brœttio, ma la confusione deve essere tra i racconti, non nel racconto.

Ci penso, forse dovrei riscriverlo con maggior ordine, poi ci ripenso: Ho scritto le cose come si sono susseguite, ho scritto i miei pensieri come mi sono sorti nella testa ed io mi sono sempre attenuto a raccontare le cose secondo verità, seguendo la loro successione temporale.

  • Come? Dite che la confusione è nella mia testa?

Non siete i primi a dirmelo e “ … francamente me ne infischio”, come ha detto Rhett Butler (Clark Gable) nella famosa frase conclusiva dell’interminabile “Via col Vento”, che ho visto quando ero ragazzo.

 

Macugnaga, 20 dicembre 2023

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