Il vecchio del Bric del Dente

Addio bei giorni passati, diceva il primo verso della canzone Piemontesina, molto in voga a quel tempo, il tempo nel quale, terminati gli studi, mi piomba addosso un lavoro, una complicazione della vita che non sono riuscito a scansare.

Ogni medaglia ha il suo rovescio e, nel mio caso, il rovescio è migliore del dritto: il lavoro mi concede l’indipendenza economica dai genitori e, pur senza spandere, posso spendere.

Ho trovato nuovi amici appassionati di montagna e con questi vado in giro per i monti della Liguria e, con una certa frequenza, andiamo anche a sciare in qualche stazione sciistica, ma non mancano le escursioni con gli sci, una forma “leggera” dello sci alpinismo o meglio, dello sci escursionismo, in quanto non puntiamo a vette prestigiose, ma solo a compiere escursioni con gli sci ai piedi.

Tra questi amici c’è Pino ed un giorno in cui non siamo riusciti a trovare altri compagni decidiamo che la prossima domenica andremo a sciare al Bric del Dente, che raggiunge i 1.107 metri. È una cima dell’entroterra genovese, a ponente di Campo Ligure, una cima della quale abbiamo sentito parlare, ma della quale non conosciamo proprio nulla. Sarà una domenica di scoperta.

Breve viaggio in treno e lunga camminata su neve gelata; risaliamo una ripida mulattiera che ci porta rapidamente in quota. Dopo circa un’ora di cammino raggiungiamo un gruppetto di poche case circondate da pendii prativi di moderata pendenza e ben innevati; il luogo sembra deserto e noi proseguiamo, sci ai piedi, fino a quando, al termine dei prati, raggiungiamo un fitto bosco di faggi. Un sentiero s’insinua tra gli alberi, ma c’è poca neve nel bosco e dovremmo toglierci gli sci per andare chissà dove per trovare chissà cosa; inoltre dovremmo fare a piedi anche il ritorno perché in quel bosco non si scia. Decidiamo di fermarci lì, anche se su quel versante il sole giungerà tardi.

Le case sono poveri rustici, solo stalle e fienili, edifici modesti, poco più del minimo per definirli miseri; porte e finestre delle case sono chiuse, ma sembra si tratti di un abbandono temporaneo, probabilmente sono abitati solo durante l’estate. Non una luce, non un filo di fumo: siamo soli.

Decidiamo di fermarci lì e scendiamo sciando sui prati fin poco sotto le baite, poi risaliamo a lisca di pesce fino al bosco. La neve è consistente, solida ma non gelata, porta bene e non dobbiamo “battere pista”. Verso le dieci arriva il sole e adesso si sta veramente bene. Illuminata dal sole, la località acquista colore e ci pare anche piacevole.

Tiriamo avanti il nostro su e giù tutta la mattina fino a che, verso il mezzogiorno, decidiamo di fermarci per mangiare e ci avviciniamo ad una fontana il cui zampillo, illuminato dal sole, sembra la sola cosa viva in quella solitudine. Stiamo aprendo i sacchi quando, del tutto inaspettato, compare un uomo: ha l’aspetto e gli abiti di un contadino, sembra uno di quei tipi che a Genova chiamiamo grebani. Ci saluta e dice che fa freddo, se vogliamo seguirlo a casa sua potremo mangiare al caldo. Siamo sorpresi, ma non possiamo rifiutare un invito che ci sembra veramente spontaneo, perciò accettiamo con piacere.

La sua è l’ultima casa del nucleo, simile alle altre ma un poco discosta e meglio esposta al sole.

Entriamo in un locale abbastanza grande: alla destra un lavello in pietra ed un mobile con piatti e pignatte formano l’angolo cucina, al centro un tavolo e due panche, alla destra un assito di tavole mal connesse sembra isolare un altro locale, forse una stanza da letto. A sinistra dell’assito, una porta conduce probabilmente ad una stalla, o forse no, poiché non ne giunge alcun odore. Tra il tavolo ed il lavello una stufa di ferro riscalda l’ambiente ed il suo tepore ci giunge ben accetto.

Tiriamo fuori le nostre poche cose e gliene offriamo, ma risponde che ha già mangiato. Mentre mangiamo chiacchieriamo e veniamo a sapere che quel luogo (del quale non ho neppure chiesto il nome) d’estate è abitato da tre famiglie che salgono da Masone con un po’ di animali.

Lui, invece, resta lì tutto l’anno e trascorre l’inverno in totale solitudine.

S’informa sulle nostre attività e si mostra abbastanza informato su come vanno le cose nel mondo. Non è il solito eremita che fugge il mondo, altrimenti non ci avrebbe invitati; al contrario, sembra abbia cercato la nostra compagnia, ma non capisco come faccia ad essere aggiornato: questo nucleo di case non è raggiunto dall’energia elettrica, quindi non può ascoltare la radio. La televisione, poi, era appena comparsa in Italia e la diffusione era ancora limitata alle città.

Penso che ogni tanto scenda a Masone od a Campo Ligure per provviste e, in quelle occasioni, chiacchieri con i paesani e, magari, porti a casa qualche vecchio giornale, buono da leggere prima di essere usato per accendere il fuoco.

Parliamo di cose comuni ma sono sorpreso dal suo parlare: usa correttamente l’italiano e il suo linguaggio palesa una certa cultura; la sua parlata, pur conservando l’accento tipico dei liguri dell’interno, manca della coccina, della cadenza marcata di queste zone.

Non ho il coraggio di fare domande sul suo conto, penso però che, un tempo, molti giovani appartenenti a famiglie numerose venivano accolti in seminario dove erano “sfamati ed istruiti” per qualche anno, nella speranza fossero colti dalla “vocazione”. Forse in questo ambiente potrebbe aver ricevuto quelle conoscenze che affiorano nel suo discorrere.

Sono incuriosito, ma ho il timore di toccare la sua sensibilità e non chiedo. Mi spiace non averlo fatto.

Il sole ha scaldato la neve, che ora è umida, perciò decidiamo di sciolinare gli sci ed il nostro ospite ci dice di farlo li dentro. Cominciamo a strofinare la paraffina sulla soletta, ma lui ci invita ad aspettare un momento.

Si allontana e poco dopo torna con una lama di metallo che ficca nella stufa; dopo un poco la estrae e noi possiamo passare la lama calda sulla paraffina che fonde e si stende uniformemente su tutta la soletta. L’avevo già fatto usando un ferro da stiro, come mi avevano detto di fare “gli esperti”, ma lui da chi l’avrà imparato?

Torniamo all’aperto e andiamo su e giù ancora un paio d’ore e qui accade il fattaccio: su una lastra di ghiaccio in prossimità della fontana perdo l’equilibrio e cado all’indietro, sì, cado proprio sul sedere. Sento un rumore secco, come se si fosse rotto qualcosa, ma non accuso dolore; porto la mano dietro e sento bagnato, poi sento l’odore, no, non quello che state pensando … s’è rotta la bottiglietta della grappa, una di quelle bottigliette piatte e leggermente curve e di giusta misura per la tasca posteriore dei pantaloni. Mi rialzo e la grappa inizia a colare lungo la gamba destra dei pantaloni; cautamente infilo la mano in tasca: non è andata in tanti pezzi, si è spaccata netta in due. Metto via i pezzi e strizzo i pantaloni per far gocciolare la grappa che li inzuppa, poi li strofino con la neve e poi … riprendo a sciare.

Accidente agli “esperti” che mi hanno consigliato di avere sempre con me un po’ di grappa perché, no se sa mai …!

A me la grappa non piace e adesso puzzo come un ubriacone; sul treno dovrò cercare uno scompartimento vuoto.

Il sole è scomparso ed il freddo comincia a farsi sentire. Salutiamo il nostro ospite – non ricordo se lo abbiamo ringraziato – e, sci in spalla, scendiamo a valle lungo la mulattiera ghiacciata. Dopo una buona mezz’ora di discesa, nella valle già buia compaiono, molto più basse di noi, le luci della stazione, che non è in paese, ma a metà strada tra Campo Ligure e Masone.

Che strano effetto vedere, da qui in alto, le acque dello Scrivia: macchie scure striate da qualche tremolante linea biancastra che si muove, scompare e riappare poco lontano, scompare ancora e ricomincia. Oltre il fiume una stretta striscia di buio, poi le luci giallastre che illuminano l’edificio della stazione e traggono qualche bagliore dai binari, poi il buio, un buio che avvolge tutta quell’isola di vita. Solo i fari di un’automobile hanno zigzagato brevemente in questo buio e sono scomparsi in direzione di Campo Ligure. A Trisobbio, dove andavo a trascorrere le vacanze estive, mi era abituale vedere il buio quando mi allontanavo dal paese, ma anche nelle notti senza luna c’era sempre un cielo stellato che spandeva un poco di luce sul paesaggio; in questa valle incassata tra i monti si vedono poche stelle ed il cielo non è ancora abbastanza scuro per metterle in evidenza. Qui riesco a comprendere la differenza tra la luce che, anche se poca e debole, ti fa distinguere qualcosa ed il buio, il buio che annulla tutto, che crea un vuoto. Ecco cos’è il buio: è un vuoto di luce.

Sul treno penso a quello strano personaggio che abbiamo conosciuto quest’oggi. No, non era strano, era solo un poco diverso dal normale, ma quanto è bastato per suscitare sorpresa ed anche un certo interesse e curiosità

Quanto era semplice nel parlare e nel gestire, quanto mi sono sembrate sensate le cose che ho inteso. Nonostante le sue condizioni economiche non mi siano sembrate invidiabili, sono convinto che quest’uomo non protesti, non scioperi, non partecipi a cortei in cui deve apparire la forza del gruppo che manifesta la volontà di attivare politiche economiche o sociali finalizzate al benessere del “poppolo” lavoratoree bla … bla … bla.

Al contrario, mi è sembrato in pace con il mondo e con sé stesso. Penso che sia la vita che conduce, presumibilmente povera e perciò semplice e genuina, a renderlo così diverso da tante persone adulte che conosco, sempre agitate da cose importanti e inderogabili, ghermite dagli impegni più inconcepibili, preoccupate di rincorrere qualche forma di benessere. Tutta gente che non suscita in me un minimo d’interesse, gente che mi provoca quasi disagio al solo pensiero di dover sopportare le loro chiacchiere.

Oggi qualcosa mi ha turbato, qualcosa che mi fa provare un senso d’inquietudine e disorientamento, qualcosa che ha infranto il mio vivere senza pensieri.

Il piacere che provo a girare per i monti aveva già fatto sorgere in me l’idea di trovare il modo per trascorrervi la vita; era un’idea vaga che, durante il viaggio in treno, inizio a considerare seriamente: lasciare la città per trasferirmi in montagna. No, non desidero spostare me stesso per fare le solite cose in un altro ambiente, io voglio trasferire i miei sogni, le mie aspirazioni, la mia vita.

Troverò il modo e il coraggio?

 

Macugnaga, settembre 2016

 

Nato a Genova nel 1936, Renato Cresta a vent’anni decide di abbandonare la vita di città e di andare a “vivere in montagna, vivere di montagna, vivere la montagna”. Si arruola nelle Truppe Alpine e vi rimane per otto anni, raggiungendo il grado di Capitano e conseguendo i brevetti di Istruttore militare di sci, di alpinismo e di paracadutismo. A trent’anni lascia l’esercito e vive di montagna dirigendo impianti sciistici.

A quarant’anni si dedica alla libera professione: Maestro di sci di fondo e di discesa, Esperto di nivologia e come tale iscritto nell’Elenco dei Periti e degli Esperti della CCIAA del VCO, Guida Naturalistica del Parco della Val Grande, docente per infiniti corsi.

Cresta è considerato uno dei principali esperti di nivologia a livello internazionale. Nel 2013 ha pubblicato “Neve, compendio di nivologia”: un testo ritenuto unanimemente l’opera piu’ completa in materia in lingua italiana.

Nel novembre 2022 esce la nuova edizione di “Neve – Compendio di nivologia”: un testo scientifico e poetico allo stesso tempo con il quale l’Autore dona generosamente al Lettore tutta la sua esperienza che, sapientemente mescolata con una magistrale e approfondita conoscenza, si pone l’obiettivo di condurre il frequentatore della montagna innevata davanti alle proprie responsabilità e alle proprie scelte.

 

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