Il Gran Paradiso – Il mio primo 4000

Dopo la pausa estiva tornano i racconti di Renato Cresta.

Questa volta il genovese di Macugnaga ci narra di quando, giovane entusiasta e un po’ sprovveduto socio del CAI Sampierdarena, è salito per la prima volta sul Gran Paradiso: il suo primo 4000.

Come sempre il Cresta racconta la montagna in ogni suo aspetto: “dopo tanti anni ho ancora nel naso quel profumo di resina che emanava dal bosco di abeti e larici e, più intensa, la fragranza del fieno tagliato da poco, un aroma vivace, particolare e indefinibile, non traducibile in parole. È un miscuglio di essenze, di sentori di tante erbe profumate, è un amalgama di fragranze composto da giorni di sole e giorni di pioggia, di notti fresche e rugiadose, chiari di luna e raffiche di vento; è il prodotto di un’alchimia che nessuna scienza d’uomo è capace di imitare. Questa è stata la prima immagine di montagna che ho percepito, ma ho presto capito che era qualcosa di più: era una immagine di vita in montagna, di vita di montagna”.

La salita viene descritta con la simpatica saggezza dell’uomo maturo ed esperto che condivide con i lettori le avventatezze di gioventù: avventatezze dalla quali subito, soprattutto poco prima della vetta e poi scendendo a valle, il giovanissimo Renato si rende ben conto.

Ho avuto paura? No, perché non ho affrontato il traverso, mentre avrei avuto certamente paura se mi fossi impegnato nel superarlo. Mi sono fermato perché mi sono reso conto che ciò che dovevo affrontare era superiore alla mia preparazione tecnica e mentale e questa non è paura, è il principio di autoconservazione che mi ha consigliato di non farlo. Giorgio fa ritorno proprio mentre mi rendo conto che non posso cambiare la montagna e che, se voglio tornarci, devo cambiare io”.

Poi prosegue: “durante la discesa mi rendo finalmente conto che siamo partiti all’avventura, senza conoscenze sul percorso, senza esperienza e con un’attrezzatura ridotta al minimo. Ed anche se fossimo stati meglio equipaggiati, non avevamo la preparazione tecnica per utilizzare l’attrezzatura nel modo corretto.

Siamo degli incoscienti, non abbiamo mai pensato alle possibili conseguenze; la nostra decisione è stata imprudente, irresponsabile, avventata, scriteriata e … non mi viene in mente altro appellativo”.

E dunque preso atto della meraviglia irrinunciabile della montagna e della necessità di prepararsi per poterla frequentare senza giocare alla roulette russa, il nostro narratore prende la decisione: “Renato, mettiti al lavoro ed impara qualcosa di tecnica d’arrampicata e di sicurezza in montagna prima di fare un’altra belinata. Mi sono messo al lavoro e sono diventato Istruttore Militare di Sci e di Alpinismo e, con i miei alpini, sono salito altre cinque volte sul Gran Paradiso, due d’inverno con gli sci”.

E noi, cosa andiamo cercando in montagna? Siamo consapevoli dei pericoli e siamo preparati ad affrontarli per ridurre al minimo possibile i rischi che andiamo a correre?

Il nostro CAI, le nostre Scuole esistono per questo: un peccato non approfittarne!

Buona lettura!
Francesca Fabbri

comitato scientifico sezionale

 

 

 

Durante le lunghe camminate che avevo fatto sui monti dell’entroterra insieme ai nuovi amici del G. A. Vajolet, avevo presto stretto amicizia con Giorgio Vassallo, detto Giorgio; eravamo i più assidui del gruppo, anzi, più volte siamo andati noi soli quando gli altri erano colti da un’epidemia di pigrizia.

Tra gli amici c’era anche Gianlungo, che aveva una certa esperienza di arrampicata (si chiamava Giancarlo, ma era detto Gianlungo per distinguerlo dall’altro Giancarlo, che era detto Gianpicin). Un giorno Giorgio ed io gli abbiamo chiesto di insegnarci ad arrampicare e lui, verso i primi di agosto ci ha condotti a La Baiarda, una fiancata scoscesa della Punta Martin. Su quelle rocce Gianlungo, bontà sua, ci ha elargito qualche nozione sui nodi e sull’uso della corda come misura di sicurezza, poi abbiamo provato a far pratica. Quel paio d’ore di su e giù per quelle facili rupi è stato sufficiente per convincere Giorgio e me che non avremmo trascorso a Genova il ferragosto ormai prossimo, ma saremmo “andati in montagna”.

Gianlungo ha in programma una salita al Monte Bianco con alcuni suoi amici del CAI San Pier d’Arena (cui siamo iscritti tutti e tre) ma, in considerazione della nostra inesperienza, non può portarci con sé. Non avendo altri conoscenti con esperienze alpinistiche, è cosa ovvia decidere di andare per conto nostro; il problema sta nel “dove andare”. Giorgio mi propone il Gran Paradiso ed io accetto, ma gli espongo le mie difficoltà: è una salita su ghiacciaio ed io non possiedo né piccozza né ramponi per affrontarlo. Non sono passati due giorni che Giorgio mi telefona: ha trovato in prestito un paio di ramponi della mia misura (allora non esistevano i ramponi allungabili) e pure la piccozza, che mi regalano, ma solo la testa ed il puntale, manca il manico. Nella ditta in cui lavoro scovo un dipendente che ha buona pratica di falegnameria e questi, in un paio di giorni, rimette in servizio la piccozza. Senza difficoltà, Giorgio riesce a procurarsi anche una corda, una corda di manilla, cioè in canapa di Manila, più rustica e meno resistente della canapa italica, ma inalterabile all’azione dell’acqua (se bagnata non indurisce e conserva la sua flessibilità). In qualche modo è riuscito a mettere insieme la ferramenta necessaria e ci organizziamo per la partenza.

 

Il treno ci scarica ad Aosta verso le 10.30 della sera. Il Viale Conseil des Commis, più noto come Viale della Stazione, è deserto ma, al lato sinistro della via, sorge il Convitto Nazionale e sulla soglia dell’edificio, ancora illuminata, c’è una persona: ci avviciniamo e, posati i sacchi sulla gradinata d’ingresso, chiediamo a questa persona, che è il custode, informazioni su dove sia possibile alloggiare. In quel momento sta passando una pattuglia di vigili urbani, che conducono a mano le loro biciclette, ed il custode ci consiglia di rivolgerci a loro, che sono sicuramente meglio informati. I due vigili ci dicono che in centro vi sono solo un paio di alberghi di un certo prestigio, sicuramente al completo, e che tutti gli altri sono in periferia, piuttosto lontani, ma ci suggeriscono di recarci, anzi ci accompagnano, sino ad un ricovero per senza tetto in Via de Tillier, poco lontana. Spiegano il nostro caso al custode e, per la modesta somma di cento lire a testa, siamo introdotti in uno stanzone, una specie di camerata con molti letti, quasi tutti già occupati da “barboni”.

Il locale è pulito, il letto confortevole e le lenzuola bianche di bucato; siamo genovesi e consideriamo ottimo il rapporto prezzo/qualità.

Il nostro arrivo ha incuriosito immediatamente la piccola comunità che è qui ospitata. In patois ci chiedono chi siamo, come mai siamo finiti lì, e così via; a nostro avviso, sono loro i tipi curiosi, personaggi veramente interessanti (per un sociologo). “Gente da faghe ‘na foto” mi dice Giorgio. “Gente da fotografà? Belin, dove ho misso a macchina fotografica?” Rapida ricerca: nel sacco non c’è. Allora l’ho lasciata sulla scalinata del Convitto Nazionale. Salto direttamente dal letto dentro i calzoni, spiego al custode il motivo per cui devo uscire e questi, gentilmente, mi offre di usare la sua bici. Volata da ultimi cento metri e, raggiunto il Convitto ormai chiuso, esploro la gradinata: nulla. Mesto rientro con cupi pensieri, era una “Closter” che avevo noleggiato dal fotografo di Via Canevari; non è un apparecchio di pregio ma che cifra mi chiederà per la mia sbadataggine?

Il mattino successivo, di buon’ora e con scarse speranze, passiamo al Convitto e chiediamo al custode se avesse trovato lui la macchina fotografica. L’ha trovata e me la restituisce, accetta il mio grazie e rifiuta la mia offerta di compenso.

Risollevato lo spirito e riposta con molta cura all’interno del sacco la macchina fotografica (allora non si chiamava ancora “fotocamera”), saliamo in treno, diretti a Villeneuve.

Nella tarda mattinata una vetusta corriera ci scarica a Dejoz. Diamo una sbirciata al minuscolo borgo, in cui tornerò molte volte negli anni seguenti, e ci avviamo verso Pont, una scarpinata di oltre otto chilometri su una (allora) mulattiera che fiancheggia il torrente.

Conservo un piacevole ricordo di questa strada, specie del primo tratto, quello che raggiunge Maisonnasse: poco più di un chilometro, ora asfaltato, ma allora era una bella mulattiera inizialmente fiancheggiata sui due lati da lunghe recinzioni di legno, oltre le quali alcuni “montanari” erano intenti a rastrellare fieno.

Più avanti si inoltrava in un fitto bosco di abeti.

Anche sui monti della Liguria avevo visto gente al lavoro: uomini che falciavano erbe secche sulle coste ripide dei nostri monti; considerata la morfologia dei luoghi e la scarsa resa del suolo, il lavoro dei montanari della Liguria era certamente più duro, ma le immagini di quella mattina mi hanno colpito ed ancor oggi le ricordo con la stessa emozione.

Dopo tanti anni ho ancora nel naso quel profumo di resina che emanava dal bosco di abeti e larici e, più intensa, la fragranza del fieno tagliato da poco, un aroma vivace, particolare e indefinibile, non traducibile in parole. È un miscuglio di essenze, di sentori di tante erbe profumate, è un amalgama di fragranze composto da giorni di sole e giorni di pioggia, di notti fresche e rugiadose, chiari di luna e raffiche di vento; è il prodotto di un’alchimia che nessuna scienza d’uomo è capace di imitare. Questa è stata la prima immagine di montagna che ho percepito, ma ho presto capito che era qualcosa di più: era una immagine di vita in montagna, di vita di montagna.

Traversata la grande spianata di Pont, attacchiamo la salita verso il Rifugio Vittorio Emanuele II, di recentissima costruzione; senza problemi, lo raggiungiamo nel primo pomeriggio. Durante la cena, ascoltando i discorsi di altri ospiti del rifugio che discutono di salite, di tiri di corda, di gradi di difficoltà, di seraccate e altro, comincio, cominciamo a renderci conto che non conosciamo quasi nulla di quanto dicono, persino la via di salita ci è ignota.

Giungiamo presto alla conclusione: Basta anâ apreuvo a-i âtri.

Il mattino successivo, infatti, attendiamo il risveglio degli altri alpinisti e ci regoliamo sui loro ritmi sicché, quando lasciamo il rifugio, già alcuni di loro stanno risalendo le tracce del sentiero che s’inerpica sul pendio detritico dietro il rifugio e che pensiamo conduca al ghiacciaio.

Ci appaiamo presto ad una giovane coppia; poche parole per sapere che sono torinesi e che anche loro intendono salire al Gran Paradiso; salendo di conserva, raggiungiamo il ghiacciaio. È giunto il momento di calzare i ramponi: seduto su di un sasso sto armeggiando con i miei arnesi quando la donna, seduta accanto a me, mi chiede “Ma li metti al contrario?” Faccio finta di niente e rispondo che, evidentemente, non sono ancora del tutto sveglio; in realtà solo adesso, osservando i suoi piedi, capisco come devono essere calzati. Poco dopo, legati con la nostra corda da bucato ci accodiamo a loro e, sebbene camminino di buona lena, almeno quanto a gambe e fiato ci riveliamo più allenati di loro, ma generosamente lasciamo che ci precedano.

La giornata è straordinariamente bella, la traccia nella neve è ben battuta e la salita è priva di difficoltà tecniche, sicché ci è facile superare i 4.000 e raggiungere le rocce della vetta. Pochi metri prima della sommità, un passaggio di una decina di metri su una cengia, così stretta che solo mezzo scarpone può trovare appoggio, permette di raggiungere la guglia della punta. Il passaggio è molto esposto sul Ghiacciaio della Tribolazione e non me la sento di fare la breve traversata: è la prima volta che mi affaccio su un vuoto … così vuoto. Giorgio, invece, prosegue e raggiunge la vetta.

Osservo il Ghiacciaio della Tribolazione, mille metri più in basso. Oltre il ghiacciaio, il panorama è chiuso dalla catena di montagne che culmina sulla serie di torri dedicate ai santi: Sant’Orso, Sant’Andrea, Torre del Gran San Pietro; i loro nomi mi sembrano ovvii: siamo o no sul Gran Paradiso?

Scendo qualche metro e mi siedo comodamente su di un accogliente gradino di roccia; volgo le spalle agli scogli della punta, che mi nascondono il panorama verso nord, e osservo: di fronte a me una sottile cresta rocciosa che discende verso la Becca di Moncorvé e la Tresenta (nella foto). Alla mia destra la Valsavarenche e le cime che la separano dalla Valle dell’Orco e, più lontane, le Levanne, poi una distesa di monti in parte nascosti dalle nuvole. Devono essere già in Francia.

D’accordo, il panorama è veramente bello, di gran lunga superiore a quelli che ho ammirato sino ad oggi, ma sono salito sin qui solo per vedere un panorama? Oppure, per conoscere su cosa si fonda la differenza tra escursione ed ascensione? Questa è la mia prima ascensione ma, se non fosse per i ramponi ai piedi, è stata facile come una gita sui nostri monti!

Si, un po’ più in alto del Rama o del Beigua; si, d’accordo, tre volte più alto, però non si vede il mare …

È stata una lunga camminata, in gran parte su ghiacciaio privo di difficoltà: non ho neppure dovuto saltare un crepaccio! Per progredire non ho mai messo le mani sulla roccia ed ho rinunciato a farlo nell’unico punto in cui era necessario.

Ho avuto paura? No, perché non ho affrontato il traverso, mentre avrei avuto certamente paura se mi fossi impegnato nel superarlo. Mi sono fermato perché mi sono reso conto che ciò che dovevo affrontare era superiore alla mia preparazione tecnica e mentale e questa non è paura, è il principio di autoconservazione che mi ha consigliato di non farlo.

Giorgio fa ritorno proprio mentre mi rendo conto che non posso cambiare la montagna e che, se voglio tornarci, devo cambiare io. Ci facciamo fotografare dai nostri occasionali amici sullo sfondo della statua della Madonna che sorge proprio in vetta, io sono quello di destra; la recuperata Closter ci permetterà di mostrare a tutti fin dove siamo saliti.

Durante la discesa mi rendo finalmente conto che siamo partiti all’avventura, senza conoscenze sul percorso, senza esperienza e con un’attrezzatura ridotta al minimo. Ed anche se fossimo stati meglio equipaggiati, non avevamo la preparazione tecnica per utilizzare l’attrezzatura nel modo corretto.

Siamo degli incoscienti, non abbiamo mai pensato alle possibili conseguenze; la nostra decisione è stata imprudente, irresponsabile, avventata, scriteriata e … non mi viene in mente altro appellativo.

Cosa vado cercando in montagna?

Forse sono in cerca di quel qualcosa che ho provato poco fa, quando siamo giunti in vetta, …  si, d’accordo, quasi in vetta.

È un qualcosa che non so dirmi, ma che vorrò provare ancora.

La discesa è cosa facile e veloce e prima di sera siamo a Pont.

Ceniamo insieme ai due torinesi nel piccolo Albergo Genzianella, che non ha camere libere, ma il proprietario ci conduce in una specie di stalla-garage e ci fornisce qualche coperta. Anche questo “quasi bivacco” è una prima esperienza, ma non ne ricordo proprio nulla, segno evidente che ho dormito sodo, come mia abitudine.

Il mattino dopo piove fitto e insistente, perciò decidiamo di tornare a casa con un giorno di anticipo. Giorgio decide di unirsi ai due torinesi e scavalcare il Passo del Nivolet per scendere a Torino passando per Ceresole e la Valle dell’Orco.

Li seguirei volentieri ma, prima di partire, ho promesso al mio “principale” di raggiungerlo a Courmayeur perché mi deve dare istruzioni per la ripresa del lavoro dell’azienda, così ci separiamo.

Raggiungo il mio Capo, che è così contento di vedermi che mi fa una regalia di 10.000 lire perché può affidare a me alcune incombenze che avrebbero dovuto farlo rientrare. Mi affida un fascio di assegni ed alcune istruzioni verbali da passare all’impiegata dell’Ufficio Cassa.

Farò tutto il viaggio di ritorno con una mano sulla tasca che contiene gli assegni. Non voglio ripetere l’esperienza della macchina fotografica.

Durante il viaggio di rientro penso a quanto ho fatto:

  • Ho scalato un 4000 senza l’aiuto di guide o di alpinisti esperti! Questo è l’aspetto positivo.
  • Ho scalato un 4000 seguendo altri, perché non sapevo neppure dove dovevo andare.
  • Ho imparato a calzare i ramponi perché qualcuno mi ha fatto osservare che li stavo mettendo in modo errato.
  • Ero legato ad una corda della quale sapevo solo fare il nodo in vita, cosa avrei fatto se Giorgio fosse caduto in un crepaccio? Probabilmente lo avrei seguito.
  • Sarei stato capace di trovare la strada del ritorno se fossero sopraggiunti nebbia o maltempo?

Renato, mettiti al lavoro ed impara qualcosa di tecnica d’arrampicata e di sicurezza in montagna prima di fare un’altra belinata. 

Mi sono messo al lavoro e sono diventato Istruttore Militare di Sci e di Alpinismo e, con i miei alpini, sono salito altre cinque volte sul Gran Paradiso, due d’inverno con gli sci.

Macugnaga, agosto 2012

 

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